La casa degli elefanti dello Zoo di Zurigo
Il nuovo parco degli elefanti “Kaeng Krachan” appartiene all’ampliamento del terreno di competenza dello Zoo di Zurigo, una possibilità di estensione territoriale dovuta alla posizione periferica di quest’ultimo, che aprì i battenti nel 1929. Costruito sul dorso di una montagna, in alto rispetto alla città e al bacino del lago, la zona è circondata su tre lati da un bosco. All’interno del nuovo parco, ciò che balza agli occhi, ancor prima di vedere i maestosi pachidermi tailandesi, è l’enorme costruzione del tetto del padiglione che li ospita (al momento sono dieci) e che spunta dal paesaggio, quasi galleggiando.
Un effetto dovuto forse all’appoggio su una struttura sostanzialmente trasparente perché molto vetrata, forse per la sua forma rotondeggiante ma un po’ appiattita.
La copertura, maestoso esempio di ingegneria del legno, è il risultato di un processo progettuale che ha visto i suoi inizi nel 2008, in occasione del concorso indetto dallo Zoo di Zurigo proprio per la nuova dimora degli elefanti con annessi spazi gestionali. E se la copertura è stata realizzata nel modo in cui è possibile vedere nelle pagine seguenti, ciò è dovuto anche al percorso concettuale che ha sviluppato quello che è, oggi, il senso architettonico di uno zoo moderno, che vuole a disposizione di ogni specie e genere d’animale un habitat che si avvicini quanto più possibile a quello naturale e, se possibile, originario delle specie stesse.
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Che la calotta consistesse di legno era chiaro fin dall’inizio: il peso relativamente basso (tra le altre cose necessario a causa della struttura del sottosuolo) e la necessità di una certa “affinità con la natura” raccomandavano la scelta di questo materiale. Tuttavia, la sua forma non poteva essere una semplice cupola, i cui carichi vengono ripartiti in modo uguale su tutto il perimetro. Da qui la forma ‘libera’, con i bordi ondulati che si definiscono anche per questioni funzionali, oltre che statiche. La struttura poggia su gruppi di setti in calcestruzzo armato posizionati nei punti più bassi del bordo del tetto.
All’interno dell’area coperta dalla calotta, il bordo continuo è autoportante e funziona come un arco. La transizione piuttosto complessa tra tetto e appoggi a terra è fornita, dal punto di vista statico, da una trave ad anello in c.a. precompresso lunga ca. 270 m che segue il bordo della calotta e devia i carichi in 5 fondazioni locali: il gruppo degli ambienti funzionali del padiglione e i 4 gruppi di setti in c.a. che, otticamente, si confondono con la facciata vetrata, scandita da setti. Le fondazioni, realizzate in c.a., sono state ancorate alla roccia sottostante con pali.
Gli strutturisti erano fin dall’inizio consapevoli del fatto che il legno, in quanto materiale anisotropo, non si adattava particolarmente bene a una struttura a cupola semplice; la sua struttura a fibre parallele è infatti molto forte nella direzione longitudinale ma debole in quella ortogonale. Pertanto la sfida è stata quella di sviluppare un sistema in grado di trasformare la struttura direzionale del legno in omnidirezionale. Tenendo quindi presente questa necessità, sono state progettate “strisce” di tetto di grosso formato (fino a 3,4×12 m), formate da strati di pannelli X-lam che, in cantiere, grazie al loro stesso peso, hanno ricevuto una prima curvatura e che sono visibili anche in alcune immagini della fase di realizzazione.
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foto | Andreas Buschmann, Zürich
⇒ l’approfondimento continua sul numero 22 di legnoarchitettura